giovedì 14 aprile 2016

Spigolature su Vincenzo Bellini


Proseguendo nella mia … passeggiata tra i compositori siciliani, non potevo certo omettere la figura del catanese Vincenzo Bellini! Ne toccherò quindi alcuni aspetti fondamentali, senza pretendere di aggiungere nulla di nuovo rispetto a quanto, nei secoli, è stato scritto su di lui.
Da bambina, suonavo già il pianoforte, con … impegno altalenante! Mio padre, un direttore bancario, ma con una spiccata sensibilità per la musica (piangeva- ricordo- quando ascoltava il finale de “La Bohème”), adorava “La Sonnambula” di Bellini e, tutte le volte che poteva, mi invitava a suonare le romanze più famose di quel capolavoro operistico, che io venivo assimilando e imparando ad amare, quasi senza accorgermene.
Fu così che mi accostai al “cigno di Catania”, nato in quella città nel novembre del 1801 sotto il segno sofferto dello scorpione, da una famiglia di musicisti.
Il nonno Vincenzo, suo primo maestro, era operista e fecondo autore di musiche sacre. A lui il talento del piccolo nipote si rivelò con evidenza attraverso brevi composizioni eseguite nei salotti della buona società o nelle chiese del capoluogo siciliano.
Una generosa borse di studio concessagli dalle autorità locali. Permise al giovane di completare gli studi musicali presso il prestigioso conservatorio di Napoli, dove ebbe come maestro “NICOLA ANTONIO ZINGARELLI” organista assai noto e compositore di rilievo, Maestro di Cappella prima nel duomo di Milano e poi in S. Pietro, direttore del “Real Collegio di Musica” di Napoli (poi Conservatorio), compositore ammirato e assai fecondo, soprattutto di messe e di musiche sacre, conservate per la maggior parte nell’archivio della Santa Casa di Loreto.
Vincenzo Bellini, il perugino Francesco Morlacchi e Saverio Mercadante furono i suoi allievi di eccellenza.
Al Conservatorio di Napoli, Bellini strinse affettuosa amicizia anche con il bibliotecario di quella Istituzione, FRANCESCO FLORIMO, destinato a diventare suo biografo ufficiale.
L’opera semiseria “ADELSON E SALVINI”, scritta nel 1825 per il saggio scolastico che concludeva il suo iter di studio, fu il suo primo melodramma, a seguito del quale gli giunse la commissione ufficiale per “BIANCA E FERNANDO”. Eseguita al teatro di San Carlo per una serata di gala, con felice esito.
Per consiglio di DOMENICO BARBAJA, famoso impresario teatrale milanese, Bellini si trasferì nella capitale lombarda, dove il trionfale successo riportato nel 1827 alla “Scala” con l’opera “IL PIRATA”, inaugurò, fra l’altro, quella feconda collaborazione con il librettista genovese FELICE ROMANI, destinata a durare tutta la vita. Ma il trionfo e il riconoscimento internazionale arrivarono con “LA SONNAMBULA” (Teatro Càrcano di Milano, 1831) e con “NORMA”, accolta tiepidamente alla “prima” scaligera del 26 dicembre 1831, ma già applaudita come un capolavoro alla seconda serata. Con “Norma”, bellini raggiunge l’apice del proprio purissimo lirismo vocale, dimostrando, al tempo stesso, una non comune “vis drammatica, che si rivela sia nella maestosa e incisiva chiarezza dei recitativi” e delle arie, sia nella ieratica solennità della massa corale, che, simile ad un grande affresco, fa da sfondo alla tragedia della sacerdotessa fedifraga.
Quando, a 35 anni ancora non compiuti, Bellini morì a Puteaux (nei pressi di Parigi) di una grave malattia intestinale che lo affliggeva da tempo, aveva composto solo dieci opere (a quelle già citate vanno aggiunte “LA STRANIERA”, “ZAIRA”, “I CAPULETI E I MONTECCHI”e “I PURITANI”), a differenza di ROSSINI e Donizzetti che, alla stessa età, avevano già completato un numero ben maggiore di opere.
Lo stato di salute precario e il suo modo di lavorare, interrotto da frequenti ripensamenti, lo induceva a seguire ritmi di produzione più lenti e meditati.
Astenutosi del tutto genere comico, che per indole non gli era congeniale, egli valutava e sceglieva con molta attenzione ogni elemento dei suoi melodrammi: in essi, la tensione emotiva e lirica si concentra soprattutto sulla voce e sulle melodie limpide e chiare, mentre la strumentazione, lineare e trasparente, a con duttilità commossa ma sempre discreta, animata da una tenera malinconia, all’insegna di un ritegno che definirei aristocratico.
L’uso accorto ma estremamente funzionale degli abbellimenti, di periodi ampiamente cantabili, la particolare sensibilità armonica (con frequenti scambi tra “maggiore” e “minore”), il sottile uso delle dissonanze e ardite modulazioni a toni “lontani”, contribuiscono a dilatare le sue melodie, conferendo loro una sottile e nuova sensualità timbrica e coloristica, che ha indotto Ildebrando Pizzetti a definire Bellini “il più puro lirico di tutto il teatro musicale dell’Ottocento”

Wanda Gianfalla Anselmi
Pescara Aprile 2016