Proseguendo nella mia … passeggiata
tra i compositori siciliani, non potevo certo omettere la figura del
catanese Vincenzo Bellini! Ne toccherò quindi alcuni aspetti
fondamentali, senza pretendere di aggiungere nulla di nuovo rispetto
a quanto, nei secoli, è stato scritto su di lui.
Da bambina, suonavo già il pianoforte,
con … impegno altalenante! Mio padre, un direttore bancario, ma con
una spiccata sensibilità per la musica (piangeva- ricordo- quando
ascoltava il finale de “La Bohème”), adorava “La Sonnambula”
di Bellini e, tutte le volte che poteva, mi invitava a suonare le
romanze più famose di quel capolavoro operistico, che io venivo
assimilando e imparando ad amare, quasi senza accorgermene.
Fu così che mi accostai al “cigno di
Catania”, nato in quella città nel novembre del 1801 sotto il
segno sofferto dello scorpione, da una famiglia di musicisti.
Il nonno Vincenzo, suo primo maestro,
era operista e fecondo autore di musiche sacre. A lui il talento del
piccolo nipote si rivelò con evidenza attraverso brevi composizioni
eseguite nei salotti della buona società o nelle chiese del
capoluogo siciliano.
Una generosa borse di studio
concessagli dalle autorità locali. Permise al giovane di completare
gli studi musicali presso il prestigioso conservatorio di Napoli,
dove ebbe come maestro “NICOLA ANTONIO ZINGARELLI” organista
assai noto e compositore di rilievo, Maestro di Cappella prima nel
duomo di Milano e poi in S. Pietro, direttore del “Real Collegio di
Musica” di Napoli (poi Conservatorio), compositore ammirato e
assai fecondo, soprattutto di messe e di musiche sacre, conservate
per la maggior parte nell’archivio della Santa Casa di Loreto.
Vincenzo Bellini, il perugino Francesco
Morlacchi e Saverio Mercadante furono i suoi allievi di eccellenza.
Al Conservatorio di Napoli, Bellini
strinse affettuosa amicizia anche con il bibliotecario di quella
Istituzione, FRANCESCO FLORIMO, destinato a diventare suo biografo
ufficiale.
L’opera semiseria “ADELSON E
SALVINI”, scritta nel 1825 per il saggio scolastico che concludeva
il suo iter di studio, fu il suo primo melodramma, a seguito del
quale gli giunse la commissione ufficiale per “BIANCA E FERNANDO”.
Eseguita al teatro di San Carlo per una serata di gala, con felice
esito.
Per consiglio di DOMENICO BARBAJA,
famoso impresario teatrale milanese, Bellini si trasferì nella
capitale lombarda, dove il trionfale successo riportato nel 1827 alla
“Scala” con l’opera “IL PIRATA”, inaugurò, fra l’altro,
quella feconda collaborazione con il librettista genovese FELICE
ROMANI, destinata a durare tutta la vita. Ma il trionfo e il
riconoscimento internazionale arrivarono con “LA SONNAMBULA”
(Teatro Càrcano di Milano, 1831) e con “NORMA”, accolta
tiepidamente alla “prima” scaligera del 26 dicembre 1831, ma già
applaudita come un capolavoro alla seconda serata. Con “Norma”,
bellini raggiunge l’apice del proprio purissimo lirismo vocale,
dimostrando, al tempo stesso, una non comune “vis drammatica, che
si rivela sia nella maestosa e incisiva chiarezza dei recitativi” e
delle arie, sia nella ieratica solennità della massa corale, che,
simile ad un grande affresco, fa da sfondo alla tragedia della
sacerdotessa fedifraga.
Quando, a 35 anni ancora non compiuti,
Bellini morì a Puteaux (nei pressi di Parigi) di una grave malattia
intestinale che lo affliggeva da tempo, aveva composto solo dieci
opere (a quelle già citate vanno aggiunte “LA STRANIERA”,
“ZAIRA”, “I CAPULETI E I MONTECCHI”e “I PURITANI”), a
differenza di ROSSINI e Donizzetti che, alla stessa età, avevano già
completato un numero ben maggiore di opere.
Lo stato di salute precario e il suo
modo di lavorare, interrotto da frequenti ripensamenti, lo induceva a
seguire ritmi di produzione più lenti e meditati.
Astenutosi del tutto genere comico, che
per indole non gli era congeniale, egli valutava e sceglieva con
molta attenzione ogni elemento dei suoi melodrammi: in essi, la
tensione emotiva e lirica si concentra soprattutto sulla voce e sulle
melodie limpide e chiare, mentre la strumentazione, lineare e
trasparente, a con duttilità commossa ma sempre discreta, animata da
una tenera malinconia, all’insegna di un ritegno che definirei
aristocratico.
L’uso accorto ma estremamente
funzionale degli abbellimenti, di periodi ampiamente cantabili, la
particolare sensibilità armonica (con frequenti scambi tra
“maggiore” e “minore”), il sottile uso delle dissonanze e
ardite modulazioni a toni “lontani”, contribuiscono a dilatare le
sue melodie, conferendo loro una sottile e nuova sensualità timbrica
e coloristica, che ha indotto Ildebrando Pizzetti a definire Bellini
“il più puro lirico di tutto il teatro musicale dell’Ottocento”
Wanda Gianfalla Anselmi
Pescara Aprile 2016
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